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Vecchioni: “Quella volta che mi circondarono le prostitute. Sanremo? Capii di vincerlo…”

Roberto Vecchioni, noto cantautore italiano, ha rilasciato una lunga intervista ai microfoni del Corriere della Sera
Marco
Vecchioni: “Quella volta che mi circondarono le prostitute. Sanremo? Capii di vincerlo…”- immagine 1

Roberto Vecchioni, noto cantautore italiano, ha rilasciato una lunga intervista ai microfoni del Corriere della Sera. Tanti i temi affrontati: ecco le sue parole.

Alla nipote Francesca lei dedicò una canzone molto bella e molto dura: «Figlia, figlia, non voglio che tu sia felice, ma sempre contro, finché ti lasciano la voce…».

«Volevo dirle di non cercare scorciatoie, di non piegarsi al potere. Non l’ha fatto».

Vorrei però domandarle di un’altra canzone.

«Samarcanda?».

Anche. Prima però vorrei chiederle come e dove nasce Luci a San Siro.

«Nasce al Car».

Centro addestramento reclute.

«Alle casermette di Casale Monferrato. Luogo di una tristezza spaventosa. Due giorni prima di partire militare, lei mi aveva lasciato».

«Tanto che importa, a chi la ascolta, se lei c’è stata o non c’è stata, e lei chi è?». Appunto: lei chi è?

«Il primo vero amore. Siamo stati insieme quattro anni».

Lei Roberto aveva già 24 anni, era già laureato, già cantautore.

«Ma sono stato tardivo. Fino a diciassette anni, solo bacetti».

La prima volta fu con la ragazza di Luci a San Siro?

«No. Però erano stati amori casuali, neanche tanto piacevoli. Con lei fu la scoperta del sesso, un’emozione fortissima. Quando mi lasciò fu terribile. Mi pareva di aver perso l’unica donna del mondo».

La prima versione del testo è durissima: «stupri, coiti anali», che poi diventano «sesso, prostituzione», infine «donne da buoncostume».

«Non fu censura. L’ho voluto io, per rendere la canzone più vasta, più universale, meno incazzata».

Torniamo al Car di Casale Monferrato.

«Un ragazzo si sentì male in camerata. Nessuno sapeva cosa fare; io gli praticai la respirazione artificiale e lo salvai. Divenni un po’ l’idolo del gruppo. Erano tutti preoccupati per me, mi chiedevano: perché sei così triste?».

E lei?

«Avevo una chitarra, ma non riuscivo proprio a scrivere una canzone su un amore finito. Era un sentimento così forte, mi pareva che le parole non bastassero. Le notti non passavano mai, non dormivo in camerata ma al bar dei sergenti, anche se ero solo aviere semplice… Fu Orlandi a convincermi».

Chi?

«Un commilitone emiliano, noto perché dedito a sedute autosessuali pubbliche, insomma una vera bestia. Eppure si commosse per la mia storia, e mi disse una frase che ancora ricordo: “Tu devi fare questa canzone, perché questa canzone sarà per sempre”».

L’ha scritta in caserma?

«No, a casa, durante una licenza, su un tavolinetto rotondo, con le farfalle sotto il vetro. Cominciando dalla fine: il patto con Milano. Perché io, figlio di napoletani, amo Milano. In Luci a San Siro, Milano è una persona viva, cui propongo uno scambio».

«Dammi indietro la mia 600, i miei vent’anni e una ragazza che tu sai…». Aveva davvero una 600?

«Grigio topo. Targata 860399. Con i sedili ribaltabili. Non avevamo una casa o una stanza. La nostra alcova era Milano».

Lo stadio?

«Ma no! È quello che pensano tutti. Ma le luci di San Siro non sono quelle dello stadio, dove andavo a vedere la Grande Inter. Sono le luci che scorgevamo dalla montagnola di San Siro, quella innalzata con le rovine delle case bombardate. Andavamo là a nasconderci e a fare l’amore. E poi Settimo Milanese, Sesto San Giovanni, il laghetto di Redecesio vicino all’Idroscalo… strade bellissime, vicende fantastiche».

Con Roberto e la sua ragazza sulla 600.

«Una sera eravamo nel boschetto sui bastioni di Porta Venezia. La storia stava finendo. Lei mi disse di no, che non voleva più farlo, e uscì dalla macchina. Io mi gettai nella rincorsa, e mi trovai circondato dalle prostitute. Non mi ero mai accorto di loro. Mi presero a borsettate: “Porco, lasciala stare, ti ha detto di no!”. Me la diedi a gambe. Lasciai lì la 600, tornai a recuperarla il mattino dopo».

Avevamo capito che fosse andata diversamente: «Ricordi il gioco, dentro la nebbia, tu ti nascondi e se ti trovo ti amo là. Ma stai barando, tu stai gridando, così non vale è troppo facile così…».

«Quello era Orazio: “Nunc et latentis proditor intimo/Gratus puellae risu ab angulo”: e il riso agognato della tua ragazza/che viene dall’angolo più segreto a tradirla».

L’ha mai più sentita?

«Fa l’art director, mi ha telefonato una volta. È un ricordo pacificato. Il ricordo di un amore perduto, ma tutti hanno perduto un amore. Luci a San Siro è anche un’anticipazione, un atto di preveggenza di quel che sarebbe stata la mia vita, dominata dall’amore».

Ma lei di Luci a San Siro scrisse anche un’altra versione: «Ho perso il conto di chi ho rimpianto…».

«Per Rossano, un cantante che partecipava al Festivalbar del 1971: alla radio passavano cento canzoni, in finale arrivavano le prime venti. Rossano si qualificò come terzo. In tv però nessuno l’aveva mai visto, e lui peggiorò le cose cantando la prima sera con la barba, la seconda senza. In compenso spopolò un’altra canzone composta da me, e cantata dai Nuovi Angeli: Donna felicità. Il bello è che a quel Cantagiro c’ero pure io, con una terza canzone, La farfalla giapponese. Di cui non si accorse nessuno».