Le interviste sono una danza, si fanno in due: se l'intervistato non ci mette del suo, tutto diventa legnoso. Bisogna entrare in sintonia.
«Il che non è facile, perché con l'intervistato il rapporto si stabilisce in 45 minuti, con una confidenza forzata, nel mio caso tutti e due appollaiati su uno sgabello scomodo».
Si lamentano spesso delle sue interviste?
«A dire il vero no, al contrario. Se sono in gamba escono dalla mia intervista con un'immagine migliore di quella che avevano quando sono entrati, perché mostrare le proprie ombre, le debolezze, le fatiche, li rende più vicini al pubblico che li ascolta. Io sono felice quando il giorno dopo mi mandano i messaggi dicendo che sono contenti. All'inizio, subito dopo la registrazione, sono confusi, escono da un'intervista serrata, piena di parole e di risposte da dare prontamente. Si sviluppa un rapporto accelerato, una amicizia o una inimicizia accelerata, ma le persone vanno comunque messe nelle condizioni di rispondere al meglio, se non funziona la responsabilità è mia. Anche sbagliare ospite è colpa mia».
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