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Che approccio porta dal mondo dello spettacolo?
«Il calciatore è un artista, e come tale è concentrato a perseguire la sua arte come unico obiettivo. Perciò se per lo stress scivola in alcuni comportamenti proibiti, come nell’ultimo periodo abbiamo visto, io parto dal presupposto che il manager sia responsabile. Nel mondo della musica se io faccio firmare un artista con Warner e poi è un flop, la colpa è anche mia. Nel calcio sembra sempre che non sia colpa di nessuno».
Come l’hanno accolta gli altri agenti?
«Alcuni mi hanno fatto la guerra. Hanno difeso il territorio e io sono ingombrante. Ecco perché lavoro meglio all’estero anche se personaggi come Perinetti e Corvino mi hanno dato ripetizioni».
In che senso le hanno fatto la guerra?
«Le dico solo che alla mia festa c’era qualche procuratore che ha dato il biglietto da visita ai miei assistiti. Un disperato».
Il giocatore che sogna nella sua scuderia?
«Amo Leao, un giocatore pazzesco. Sa perché? Gioca ridendo, è felice. Poi è appassionato di musica, ha un grande brand da vendere».
Suo papà come ha accolto l’incursione nel calcio?
«Lui sa che sono iperattivo, sognatore, startupper nato. Negli ultimi sei anni mi ha osservato da lontano, poi quando a settembre ho superato l’esame di agente Fifa ed è arrivato il patentino e di recente ho lanciato Alí ha capito che stavo facendo sul serio».
Meglio una scuderia nutrita o pochi campioni?
«Meglio pochi forti, con una grande struttura a supporto. Sa quante persone lavorano per i Pooh? Cento. Dobbiamo trasportare questa mentalità nel calcio, dove uno staff di professionisti cura il singolo artista. Ora cerco in Italia la mia pepita».
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