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Nek: “Il mio primo concerto? Finì dopo 30 secondi. Laura? Mai più rivista”

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Le parole del cantautore: "Nel nostro mondo c’è tanta pressione: viaggi tanto, fai un lavoro molto stressante, tutti si aspettano tanto"
Marco

Nek, noto cantautore italiano, ha concesso un'intervista ai microfoni del Corriere della Sera. Queste le sue parole, partendo dal primo concerto: «Era il 1992, all’epoca del mio primo disco. Mi esibivo davanti a 15 persone, tutti miei amici, a Sassuolo, il paese dove sono nato. Suonavo con le basi ma il registratore si mangiò il nastro e la mia performance finì miseramente dopo 30 secondi». Ride. «Del resto non si è mai profeti in patria».

Mai pensato: non ce la farò a sfondare con la musica.

«Ci sono stati momenti difficili, ma non ho mai pensato di non farcela, sono sempre stato uno determinato, ho sempre inseguito la musica. Poi certo è complicato: hai a che fare con il gusto delle persone, la vita è varia, non puoi prevedere se un pezzo piacerà o meno».

Uno dei momenti più brutti?

«Il Sanremo 2019. Presentai un pezzo che non fu capito (Mi farò trovare pronto arrivò al 19° posto). Niente a che vedere con quello precedente, quando nel 2015 cantai Fatti avanti amore (secondo). Il nostro lavoro è così: alti e bassi, sempre un’incognita».

A una lettura disattenta gli artisti di strada sembrano «sfigati» che non ce l’hanno fatta.

«Anche io pensavo fossero costretti a essere lì, che la strada fosse il loro piano B, l’ultima spiaggia, invece la maggior parte di questi artisti ha fatto una scelta, una scelta libera da costrizioni, da stress da show business. Sono persone che non si fanno schiacciare da certe logiche, che girano il mondo e guadagnano, mantengono una famiglia. Il loro tratto principale è sempre l’estrema libertà. E poi è un mestiere veramente meritocratico: guadagna solo chi lavora bene».

Lei non ha mai suonato in strada, ma quando da ragazzino aveva iniziato a fare musica con un amico in un duo country. Una scommessa folle: il country in Italia, come vendere ghiaccio agli eschimesi.

Ride. «In effetti è stato un azzardo, una scelta inusuale. Avevamo 14 anni ed eravamo due ragazzetti che suonavano le canzoni di John Denver influenzati dai gusti musicali dei nostri fratelli più grandi che lo ascoltavano. Quando abbiamo cominciato a suonare siamo partiti dalle case dei nostri amici per arrivare alle sagre di paese, alle feste di piazza. In quelle piccole occasioni ho capito quanto fosse importante la musica per me. E comunque oggi continuo ad amare il country, mi ha insegnato tanto, il mio gusto per le melodie viene da lì».

Laura non c’è arrivò settima a Sanremo nell’anno in cui vinsero i Jalisse, una cantonata clamorosa.

«Beh, episodi simili sono successi anche a Zucchero e Vasco. Le vittorie nella vita spesso però non corrispondono alle classifiche dei Festival. Alla fine è andata bene lo stesso».

Il testo racconta di una storia finita, lei è quello mollato.

«È una canzone autobiografica, con un riferimento molto personale. Tutti abbiamo incontrato una Laura nella nostra vita, è un’esperienza vissuta da tanti, il suo successo probabilmente arriva da lì. Laura ha fatto parte della mia vita e quando si è staccata da me mi è dispiaciuto: mi è rimasto l’amaro in bocca».

Vi siete mai più rivisti?

«No, mai più».

Ha dedicato tanti brani a sua figlia: la creatività nasce dal dolore o dalla felicità?

«Per quanto mi riguarda la felicità è un motore più forte, ma capisco che scrivere canzoni in un momento di dolore possa essere una grande valvola di sfogo, fortunato chi ci riesce. Ma anche manifestare la gioia può portare a grandi risultati».

Sting è stato un suo mito. Gli assomiglia perché le piace o le è piaciuto perché gli assomigliava.

Ride. «Penso di assomigliargli per genetica, dal punto di vista vocale, e in tanti me lo hanno detto. Fisicamente invece credo di assomigliargli invecchiando, da giovane molto meno».

I suoi testi sono «puliti». Cosa pensa di certe derive del rap?

«In certi testi può esserci una parte di fiction, una di vita vissuta, una parte per cui è figo dire certe cose. Quanto c’è di vero però non lo so e quindi non sta a me giudicare. So però che mia figlia di 14 anni purtroppo ascolta robe tremende. Io invece preferisco altro. Credo che l’arte passi attraverso il bello, non attraverso provocazioni o atti violenti».

Quando il successo le ha fatto perdere la testa?

«Nel nostro mondo c’è tanta pressione: viaggi tanto, fai un lavoro molto stressante, tutti si aspettano tanto da te. E soprattutto quando si è giovani può succedere anche di perdere il senso della misura. Ricordo che una volta dovevo essere ricevuto dal Papa per un concerto di Natale, arrivavo dagli Stati Uniti ed ero in forte ritardo, il Papa stava cominciando l’udienza generale e io — in un delirio di onnipotenza — dissi al mio discografico: chiedete al Papa di aspettarmi. Ecco, lì ho un filino esagerato».