I crudi dati basterebbero a scolpire un monumento sportivo: esordio in serie A a 16 anni, primo scudetto a 19, il terzo e ultimo a 35, due Coppe dei campioni, due Coppe delle coppe, una coppa Intercontinentale e l'Europeo '68. Ma non è stato solo questo a fargli vincere il Pallone d'oro, primo italiano (lo aveva preceduto solo Sivori), nel 1969, o inserire nella top 20 dei migliori giocatori del 20/o secolo, come nemmeno essere la 'bandiera' del Milan, con cui collezionò 658 presenze e 164 gol.
Perché il suo segreto, semplice ma inimitabile, era la classe. "Al provino col Milan mi misero in squadra coi titolari - ha raccontato una volta -. Ero ragazzino e dovevo passare la palla a Schiaffino, Liedholm, Altafini. Ma non mi emozionai, ero a mio agio. Lì nacque la mia storia d'amore col Milan". L'oriundo uruguaiano fu un po' il suo maestro, mentre con Nereo Rocco ebbe un rapporto umano e sportivo di rara intensità e successo.
Non arrivava da lontano il piccolo Gianni di Alessandria, che a nemmeno 16 anni aveva debuttato in A con i grigi, guarda caso contro l'Inter, che peraltro tentò di accaparrarselo. Ce la fece il Milan, convinto anche dai suoi senatori di investire su quel giocatore un po' gracile che faceva correre palla e compagni, confezionando assist e gol. Rivera ammette di non apprezzare troppo il calcio attuale - eccessi economici compresi - soprattutto per l'accento posto più sulla fisicità che sulla tecnica.
Un atteggiamento che anche quando giocava molti critici non apprezzavano, d'accordo con la definizione di 'abatino' coniata da Gianni Brera. Una certa mollezza, peraltro smentita tante volte sui campi, spesso spariva fuori dal campo, specie quando aveva a che fare con gli arbitri. Nel marzo '72 si fece squalificare dopo un attacco al designatore Campanati, parlando di complotto ai danni del Milan. Un anno dopo, la stagione del fatale 5-3 col Verona, si confrontò senza paura col principe dei fischietti, Concetto Lo Bello. Anche grazie a quegli affondi, Rivera è diventato un simbolo, un calciatore - ma lui preferisce definirsi "uno che ha giocato a pallone" - che ha fatto innamorare e amare ma che ha anche separato e diviso. Non solo Milano ma tutta l'Italia. La sua rivalità-complicità con Sandro Mazzola - anche a causa della mancata staffetta della finale '70 - si è impressa nella cultura popolare, come una riedizione di quella Coppi-Bartali.
Lasciato il calcio giocato, Rivera si è tuffato nel ruolo di dirigente per salvare un Milan in crisi. Anni bui per il club, con la doppia retrocessione in B prima per lo scandalo totonero e poi per demeriti calcistici che lui ha vissuto in prima persona da vicepresidente, fino al 1986. L'arrivo di Berlusconi lo ha indotto a lasciare la società e da lì è cominciata una specie di oblio. Da allora per Rivera - che pure si è ritagliato un ampio spazio nell'agone politico -, non c'è stato posto di rilievo nel calcio, nemmeno in Federazione, dove pure ha ricoperto vari incarichi nel settore giovanile e quindi del settore tecnico. Non ha mai pensato di fare l'allenatore, anche se solo nel 2019 ha acquisito il patentino Uefa Pro. Di recente ha ricordato in un'intervista che è pronto a usarlo. E chi non vorrebbe vederlo alla prova, facendogli tanti auguri.
(Fonte: ANSA)
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