Le parole della campionessa: "Non è stato facile trovare con chi metterlo al mondo e questo era un passaggio fondamentale"
Intervistata da Sette, Federica Pellegrini ha parlato così della nascita della sua prima bambina con Matteo Giunta, Matilde: «Avere un figlio è un pensiero che è sempre stato lì nella mia testa. Ho una famiglia molto tradizionale, sono cresciuta con l'idea che avrei avuto un bambino frutto dell'amore della coppia. Non è stato facile trovare con chi metterlo al mondo e questo era un passaggio fondamentale».
Dopo tanto cercare è arrivato Matteo.
«Sì. Ma abbiamo fatto un passo alla volta: prima portato avanti obiettivi personali e lavorativi, quindi ci siamo “messi al lavoro”. E subito ci siamo detti che se un bambino non fosse venuto, non saremmo stati lì a strapparci i capelli perché comunque noi stavamo bene così. È importante trovare una persona con cui trovi un equilibrio, credo molto nella forza della coppia: il nostro cerchio era già chiuso, Matilde è un elemento in più che ha accresciuto il nostro rapporto, non l'obiettivo finale».
«Siamo super complici in tutto, nel lavoro come in famiglia. Abbiamo scelto un percorso di esclusività senza mettere tra noi e Matilde persone estranee. Ci siamo divisi i compiti. Abbiamo avuto anche difficoltà nell'organizzazione, in quei casi i nonni sono stati fondamentali».
Come ha vissuto la maternità?
«Per una donna indipendente e abituata a fare tremila cose in un giorno, è stata tosta. Poi io sono sempre stata molto magra e vedere il corpo che cominciava a cambiare non è stato facile, anche perché all'inizio desideravamo tenere per noi questa nuova condizione ma io mi vedevo diversa e temevo che tutti capissero il mio stato. Ma quando la pancia si è messa in mostra definitivamente e ormai la notizia era di dominio pubblico, ho capito che quel girovita non più sottile non era poi così male. So che può far sorridere, ma l'unica cosa che non ho mai tollerato e con la quale anche oggi faccio fatica a convivere è l'esplosione di un seno importante. Ho imparato ad accettarlo perché è funzionale alla causa, ma non lo sento mio».