Roberto D'Aversa, tecnico dell'Empoli, nel corso di un'intervista concessa a La Gazzetta dello Sport ha parlato della paresi facciale che lo ha colpito qualche settimana fa: "Mi stavo lavando i denti. La sera prima avevo cenato a Firenze con lo staff. La bocca non rispondeva ai comandi. Nei due giorni precedenti non sentivo i sapori, ma il tampone del Covid era negativo. Ho chiamato il dottore dell’Empoli, siamo andati al Pronto soccorso e ho aspettato quattro ore gli esami pensando a cose molto brutte. Poi il responso: paresi facciale. Io non sono mai stato bello, così però... Sto facendo le cure, cortisone, integratori per i nervi. I primi giorni sono stati davvero brutti, di notte dovevo bendarmi l’occhio sinistro perché non si chiudeva. Per un po’ è stato impossibile bere e mangiare. Adesso scherzo con la mia figlia più piccola, quando provo a darle un bacio e la bocca va da un’altra parte. E ridendoci su capisco quanto siamo fortunati, quanto sia importante la prevenzione e quanto soffra chi dalla nascita convive con certi problemi e magari viene anche bullizzato".
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D’Aversa: “La paresi facciale? Ora capisco quanto siamo fortunati. Con Henry…”
Cosa le ha insegnato la vita negli ultimi 9 mesi?
"A dare il giusto valore a ogni cosa, a capire quali sono i veri problemi. L’episodio di Lecce è accaduto in campo, ma poi è uscito dallo stadio ed è rimasto dentro di me, in casa, nelle parole con gli amici, nei pensieri di ogni sera. Poco prima mia madre aveva avuto un ictus improvviso e da allora non può alzarsi dal letto, anche se sta gradatamente recuperando. E mi sono vergognato pensando che nei primi mesi della malattia ero così preso dal lavoro a Lecce che andavo poco a trovarla a Pescara. Vivo di calcio, ma il calcio non deve essere la prima cosa".
Qual è stata la cosa più difficile dopo l’episodio con Henry?
"Rientrare in casa e guardare in faccia i miei figli, che erano allo stadio. Mia moglie Claudia è stata fondamentale in tutto e ha fatto crescere i ragazzi con principi e valori importanti. Sono stati bravi a starmi vicino e a comprendere che si era trattato di un errore. Quello è un gesto che non mi appartiene, chi mi conosce lo sa. Io dovevo solo riconoscere l’errore, chiedere scusa e riabilitarmi comportandomi come avevo sempre fatto prima".
Da quel giorno è più comprensivo quando a sbagliare sono i suoi figli o i giocatori?
"In realtà lo ero anche prima. Non mi piace giudicare, non l’ho mai fatto. Non metto etichette. L’errore può capitare a tutti. Cerco di trasmettere le mie esperienze ai ragazzi. C’è una sola cosa su cui non si può rimediare: la perdita del tempo. Ed è quello che ripeto spesso a figli e giocatori".
A tavola con Conte parlate solo di calcio?
"L’amicizia con lui e con Daniele Faggiano ha radici lontane. Conobbi Antonio a Siena, quando era il vice di De Canio e io giocavo. Cominciarono a frequentarsi le mogli, poi diventammo amici noi. Un rapporto veramente stretto. Parlare di calcio è inevitabile e Antonio in questo è peggio di me".
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