Manca eccome Sinisa Mihajlovic. A tutto quell'ambiente che è stato casa sua per anni e che lo ricorda come un amico sincero. Anche i tifosi lo portano nel cuore come uno di famiglia, in virtù di quella stima che ha saputo conquistarsi con il suo carattere e la sua trasparenza. Lo racconta anche la sua vedova Arianna, in una intervista concessa oggi a Repubblica.
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Arianna Mihajlovic: “Da romanista a laziale per amore. A Sinisa ho fatto una promessa”
Arianna, c’è già aria di Natale…
«E non mi mette allegria. Sinisa se ne è andato il 16 dicembre del 2022. E anche quel giorno in città era tutto uno scintillio».
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Come sono stati questi due anni?
«Difficili. Il secondo ancora peggiore del primo. All’inizio ho vissuto sotto shock. Mi sembrava che da un momento all’altro mi potesse chiamare da Bologna, dove stava gran parte della settimana: “Amo’ — mi chiamava così, in un romanesco intinto nell’accento slavo — Domani arrivo, mi fai pasta e fagioli? Piccante, eh”. Il lunedì, il suo giorno di riposo, lo passavamo tra alimentari e norcinerie».
In casa il calcio è ancora protagonista.
«I miei figli sono innamorati del pallone: e vanno ancora allo stadio. Io faccio fatica, invece, e poi sa una cosa? Sono una romanista diventata laziale per amore».
Che padre è stato Sinisa?
«Cambiava i pannolini, faceva il bagnetto, ma dava regole. Quindi non si sgarrava. Per loro perderlo è stato veramente duro. Ma sono la mia forza. A Sinisa gliel’ho promesso. “Ora vai — gli ho detto stringendogli la mano — ai ragazzi ci penso io”. Solo allora se ne è andato… È stato il momento più terribile e intenso che abbia mai provato. Eravamo intorno a lui, io, i figli, il suo migliore amico, mia madre, sua madre. Dopo l’ultimo respiro, c’era una forza in quella stanza che non saprei descrivere.
Abbiamo pianto le lacrime che non avevamo potuto versare prima, per non fargli capire che era finita».
Non gli ha detto la verità?
«No, volevano così anche i miei ragazzi. Sinisa aveva troppo bisogno di pensare che avrebbe avuto un domani».
Che carattere aveva?
«Era perbene, schietto, buono. Non un tipo ridanciano. Non mi diceva mai: “Ti amo”. Ma tra noi era così, l’amore me lo dimostrava coi fatti. E io uguale. Negli ultimi tempi avreivoluto dirgli che lo amavo in ogni momento, ma temevo potesse capire che la situazione stava precipitando. Uno degli ultimi giorni, però, ce lo siamo detti con uno stratagemma. Lui era in clinica, era venuto l’oncologo Marchetti a visitarlo. “Grazie Paolo, ti voglio bene”, gli ha detto mentre il medico andava via. Ho preso la palla al balzo: “E a me?”. “A te ti amo, è diverso”. “Anche io”, gli ho risposto. E non vedevo l’ora».
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