Sarà anche attrice?
«No. Voglio godermi questa cosa da sceneggiatrice. La regia? Vedremo. Ora vivo per scrivere.
Dovunque vada, ho il computer di mia figlia, mi ha fatto una cartella che si chiama "Mammona" in cui metto tutte le cose che scrivo. Poi le mando di notte a Francesco (Renga, ndr.), il papà dei miei figli, con cui ho un bellissimo scambio di idee».
Era giovanissima quando ha iniziato a soffrire di bulimia, e sotto i riflettori. Non facile da gestire.
«Su Instagram ho pubblicato molti articoli e servizi in cui il mio corpo, che si era trasformato, veniva preso in giro. Anche vent'anni fa, in Rai, andò in onda un servizio che ho poi ripubblicato: mi definivano "generazione XXL". Ho scelto di non sottrarmi, di non rifiutare quella porcata. Ho deciso di affrontarla. Non l'ho mai vissuta da vittima. Mi sono ripresa tutto, anche le ferite. So che può far male a chi ha provato a fermarmi nella vita, ma non ci sono riusciti. Mi hanno solo fatto conoscere una donna più interessante di quella che avrei potuto essere se avesse prevalso la superficie».
La sua zattera ora è una nave.
«Sì, ho costruito tutto partendo dal dolore, dalle incongruenze, dall'essere "fuori coda". Oggi sono fiera di essere ingestibile, perché io non vado gestita. Dopo 33 anni di lavoro ho anche qualche pretesa. E quel mio lato emotivo, che prima mi sembrava un limite, è diventato il più stabile. Un ossimoro, lo so».
Il tono del film?
«Una commedia irriverente. Io vivo così, con la vela e l'ironia sempre accese. Pericoloso, invece, è dare la colpa ai social, come se fosse tutto nato adesso. Il bullismo c'era anche prima, eccome».
Il momento difficile?
«Se guarda l'ultima puntata di Non è la Rai, ero nel pieno della malattia. Ero una ragazzina. E quella malattia ti frega, se non capisci da dove arriva. Oggi, a 48 anni, posso dire che sento tutto in modo speciale. Anche cose che non mi riguardano. Forse è per questo che sono arrivata a spiegarmi quella malattia come qualcosa che parte dalla "taverna" che ho dentro, nel corpo. Non è più una malattia, oggi è un aggettivo».
Quando si è scoperta bulimica?
«Nella libreria di un aeroporto. Mi sentivo strana ma funzionavo, avevo successo. Prendo un libro, Tutto il pane del mondo di Fabiola De Clercq. Lo apro. Leggo: "Vomito tutto quello che mangio". Mi spavento. Lo chiudo. Lo compro. Lì ho capito. Ho dato un nome a quel male. Ero un animaletto tirato fuori da una tana, buttato in mezzo agli aeroporti, alle stazioni. Gigantesco tutto, mentre io a malapena mettevo insieme un congiuntivo. Anzi, li sbagliavo. Il momento più imbarazzante della vita: in diretta, Boncompagni in auricolare, sbaglio un congiuntivo e lui: "Ambra, con tutti i soldi per farti studiare…", e continua a mangiare una brioche; perché era così: tenero e crudele allo stesso tempo. Ma il bello è che alla fine ridevamo. In regia, con il pubblico. Non c'erano i social. Altrimenti sarei stata distrutta».
Come ci convive oggi?
«Non vomito più, ma quella parte c'è. È diventata una forma di coscienza, un modo di sentire il mondo. Sono bulimica nel senso profondo, negli affetti, nel lavoro. Ho bisogno di abbracciare e di essere abbracciata. Di comunicare. Ho bisogno di verità».
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