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Magnini: “Atteniamoci alle regole. Giustizia sportiva non può giocare con la vita delle persone”

Il nuotatore Filippo Magnini ha parlato della sua vicenda e di come sta trascorrendo questi giorni con l'emergenza Coronavirus

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Intervistato dal Corriere della Sera, il nuotatore Filippo Magnini ha parlato della sua vicenda e di come sta trascorrendo questi giorni con l'emergenza Coronavirus:

"Filippo, come e dove vive questi giorni drammatici?

«A Milano, con grande senso di responsabilità: la situazione è grave e tutti dobbiamo attenerci alle regole per uscirne presto. Sono con Giorgia, Sofia e i nostri cagnolini. Passo le giornate in famiglia».

"L’ultima nuotata?

«A metà febbraio. Poi sono riuscito a ordinare online degli attrezzi da palestra per allenarmi a casa».

"Giugno 2017: lei passa dal palcoscenico sportivo-mediatico alla cronaca.

«Mi sveglio e mi trovo sulle prima pagine dei giornali. Mi crolla il mondo addosso, non ne comprendo il motivo. Sono incredulo».

"Il processo sportivo italiano ha avuto momenti di grande tensione. I suoi giudici prima o poi ammetteranno il loro errore?

«Il processo è stato subito difficile: più andavo avanti meno ne capivo il meccanismo. Non mi interessa che ammettano l’errore: il mondo l’ha già compreso. Mi interessa siano venute fuori la verità e la mia innocenza».

"Lei non ha mai rinnegato Guido Porcellini, il medico al centro dell’indagine?

«Ho sempre detto la verità: Porcellini non mi ha mai proposto sostanze vietate e io non le ho mai chieste. Seguiva molti grandi atleti e anche con loro si è sempre comportato correttamente: è stato infatti scagionato dall’accusa di spaccio nei confronti di sportivi. Se poi nella vita privata agiva in modo diverso con altre persone, io non potevo saperlo. Porcellini mi era stato presentato da mio cugino Matteo Giunta, attuale allenatore federale del nuoto. Era un oncologo e ha seguito la malattia di mio nipote».

"Qual è stato il momento più difficile?

«Fatico a sceglierne uno. Sono stati tanti e ognuno così pesante e mortificante che a ripensarci mi viene un peso allo stomaco. Penso a quando l’accusa asseriva che il problema oncologico di mio nipote era una falsità e mi tornano alla mente i pianti miei e della mia famiglia quando abbiamo scoperto la malattia. Mi ricordo dei tanti ospedali, da Milano alla Francia, che abbiamo girato per trovare una soluzione. Mi fa rabbia sentire che una persona — che non ha davanti un terrorista o uno stupratore ma un atleta — affermi una cosa del genere solo per dar manforte alla sua teoria accusatoria».

"Quella di Losanna è l’unica sconfitta nella storia della giustizia sportiva italiana. Che lezione trarne?

«Che non si gioca con la vita delle persone. Non sono un giurista, non ho le competenze tecniche per dire cosa debba cambiare. Ma so che una decisione del Tribunale Antidoping può distruggere sia dal punto di vista sportivo che umano. Per un atleta di alto livello lo sport è lavoro, è vita. Ogni sentenza che possa comportare la sua esclusione deve essere presa con cautela o le conseguenze possono essere devastanti».

"Che cosa direbbe a chi in questi giorni si allena senza sapere quando potrà gareggiare?

«Di non mollare. Nessuna sfida è troppo grande da non poter essere vinta».