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Luca Di Bartolomei: “Mi sentivo in colpa per il suicidio di mio padre. Oggi…”

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Il figlio dell'ex centrocampista e capitano della Roma si è raccontato dopo la tragedia che lo colpì nel 1994

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Luca Di Bartolomei, figlio di Agostino, ex centrocampista e capitano della Roma morto suicida nel 1994, ha rilasciato un'intervista al Corriere della Sera: "Il 18 agosto dell'anno scorso io, Luca Di Bartolomei figlio di Agostino Di Bartolomei, sono diventato più vecchio di mio padre. Ho raggiunto e superato il tempo che lui ha vissuto, e ho avuto la forza di andare sulla sua tomba a San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno, di fronte al mare, cosa che non faccio praticamente mai. Ed è stato un altro colpo di pistola, che non mi aspettavo".

Come quello che il 30 maggio 1994 s'è sparato suo padre al petto, uccidendosi sul terrazzo della vostra casa di San Marco?

"Quello mi tolse il padre. Questo invece è riuscito a svegliarmi, a liberarmi da un senso di colpa che non doveva appartenermi ma mi ha accompagnato per quasi ventinove anni".

Perché un senso di colpa? Lei era solo un bambino di 11 anni quando suo padre si suicidò.

"Perché non sapevo come reagire a ciò che avvertivo come un rifiuto da parte di Agostino. Lui si è ucciso nonostante avesse me, oltre mia madre e mio fratello, e dunque pensai che dovessi avere anch'io una parte di responsabilità. Il suo gesto ha generato in me quel sentimento con il quale a un certo punto ho dovuto fare i conti, ma ha pure trasformato Agostino in un piccolo fenomeno collettivo per tante persone della sua generazione, in questo microcosmo che è Roma".

Il capitano della Roma campione d'Italia del 1983, romano del quartiere popolare di Tormarancia che guidò la squadra a vincere il suo secondo scudetto e subito dopo arrivò alla finale di Coppa dei Campioni, persa ai rigori il 30 maggio 1984. Che cosa c'è di collettivo dietro un suicidio avvenuto esattamente dieci anni dopo quella sconfitta?

"Credo che Agostino sia la rappresentazione del potenziale fallimento che interroga tutti, e di fronte al quale rimaniamo senza parole o senza fiato. Prenderne atto attraverso una persona mitizzata nel luogo più incontaminato della nostra infanzia, il gioco, considerato una sorta di eroe del mondo in cui siamo stati e ci fa sentire ancora bambini, è una circostanza che atterrisce, ma suscita anche tanta pietà".

Perché lo chiama Agostino, anziché papà?

"Perché fino ad ora l'incapacità di capire come vivere questa vicenda ha provocato una rabbia che ha eretto una specie di muro tra me e lui. Quasi invalicabile. Invece da simili esperienze bisognerebbe imparare ad avere la forza di accettare le proprie fragilità e non provare sempre a superarle spingendosi oltre; riempire ogni cosa di significati va bene, ma va bene anche non avere l'ansia di riempirle ad ogni costo perché altrimenti manca qualcosa".

Essere figlio ma anche vittima di un suicida famoso, aiuta a superare il trauma o è un ostacolo in più?

"Per certi versi aiuta perché contribuisce a parlarne, a cercare di capire che cosa è successo senza che tu te ne rendessi conto; però a volte è un peso ulteriore, come se fossi avvolto da una tela continuamente tessuta anche quando tu senti il bisogno di strapparla. Io oggi avverto tutto l'amore per il figlio di Agostino e di essere riconosciuto come tale qui a Roma, però sento anche che dietro la continua ricerca di risposte da parte di tante persone che si interrogano sulla mia storia ci sono le loro domande, il loro rapporto con le loro fragilità, con un momento di solitudine o con il bisogno di amare una persona sconfitta".

E questo riguarda gli altri, non lei.

"Esattamente. Agostino era un calciatore che ha vinto uno scudetto e ha rappresentato tanto da vivo, ma per molta gente ha lasciato più impronte da morto. È stata una persona di successo che da un quartiere umile è arrivata sul tetto d'Europa e poi è crollata, uccidendosi in quella stessa data dieci anni dopo, facendo un tonfo talmente rumoroso da andare oltre la sua vicenda personale. Trasformandola in collettiva. Quasi generazionale. In fondo la sua generazione, se non è stata più fortunata della mia ha avuto certamente prospettive migliori e più ampie di quelle che si dischiudono oggi; è come se per quelli della sua età sbagliare fosse meno giustificabile rispetto a coloro che sono arrivati dopo. Forse anche per questo il suo gesto interroga molti. Agostino è stato mio padre, ma è anche il fratello di tanti di voi".

In passato lei ha detto di voler credere che lo sparo nel decennale di «una stupidissima partita di calcio» persa ai calci di rigore fosse solo una coincidenza, non voluta. Ora sembra aver cambiato idea.

"È così. Ho accettato l'idea che ci si possa sentire manchevoli anche di fronte all'amore di un figlio e di una famiglia, che evidentemente non bastano a colmare le lacune del proprio animo".

Quindi rievocare la sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni significava ammettere un fallimento personale?

"Direi di sì. Non ho certezze né prove, ma dovendomi basare su indizi penso che si debba accettare questo messaggio, farci pace e andare avanti. Smetterla di chiamarlo Agostino e farlo tornare papà. In fondo la mia rabbia verso di lui è derivata proprio dal suo considerarsi più Ago che papà; più il campione che aveva fallito l'appuntamento più importante della sua carriera del padre che poteva essere. Però sto capendo che le persone vanno amate come sono, non per come vorremmo che fossero. I figli si amano quando sbagliano e questo deve valere anche per i genitori. Ma per amare persone che sbagliano devi essere in pace con te stesso. Io mi sono sempre sforzato di perdonarlo per quello che mi ha tolto, decidendo di andarsene quando ero ancora un bambino; adesso sto provando ad amarlo".

Suo padre era considerato un calciatore anomalo per il suo apparire serio, consapevole, amante dell'arte e della cultura, riservato e introverso; alla fine emarginato, e anche un po' emarginatosi, da un ambiente nel quale invece avrebbe voluto rimanere.

"Il suo essere diverso non era un atteggiamento, bensì l'essere fatto in un'altra forma, con le proprie ombrosità, curiosità e voglia di capire che cosa ci fosse intorno a un campo di calcio. Credo fosse una parte di lui molto bella, e che poteva essere di esempio. Più che essere ricco e avere successo, ambiva a essere qualcuno".

Lei ha sempre detto di ricordare tutto di quel 30 maggio 1994. Vuole condividerne qualche frammento?

"Il 30 maggio è papà che scende dalla stanza dove dormiva con mamma e infila qualche moneta nella tasca dei miei pantaloni appesi alla ringhiera della scala; io lo vedo perché ero già sveglio, e quando entra in camera per salutarmi mi chiede se voglio andare con lui a Salerno. Io rispondo di no perché avevo una prova di latino a cui non volevo rinunciare. Poi mi vesto, preparo lo zaino, papà s'era seduto in terrazza al sole che batteva già alto, gli do un bacio. Vado a scuola. Dopo circa un'ora, con molto tatto, mi hanno avvisato di quello che era accaduto e sono tornato casa. Ago era già nella bara di zinco".

Difficile perdonare.

"Molto. E alla fine dei conti, più che perdonare lui sarebbe bastato non colpevolizzare me stesso".