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Getty Images
Intervistato dal Corriere della Sera, Paolo Simoncelli, proprietario della «Sic58», il team che ha fondato nel 2013 in onore del figlio Marco, è tornato sul tragico incidente in cui ha perso la vita il motociclista nel 2011. "Mi ripeto semplicemente che questa è la vita e soprattutto che non ho nessun rimpianto. Il destino di Marco era questo, io e mia moglie abbiamo fatto di tutto affinché fosse felice e lui è morto mentre stava facendo una cosa che lo rendeva felice».
«Solo uno, quell'asciugamano del c... che Marco teneva in testa al contrario sulla griglia di partenza in Malesia».
«Nelle corse tutti lo sono. Ci sono dei gesti che ripeti perché ti danno serenità. Quel pomeriggio lì, quando varcai il cancello sul motorino per andare a vedere la gara, mi arrivò addosso un vento gelido che sapeva di morte. Mi sono detto. "ca... lo vado a fermare". Ma mancava un minuto e non ce l’avrei fatta. Per cinque minuti, fino all’incidente, ho sentito che c'era qualcosa che non quadrava».
«In camera sua. Non è cambiato niente, dorme ancora lì».
«È normale».
«Penso che quel giorno non sia tanto lontano».
«Questi americani mi hanno già rotto».
«Mirano a cambiare tutto, sembra che non vada bene niente di quello che abbiamo costruito. Vogliono togliere dai conteggi ufficiali i titoli vinti nelle categorie inferiori, contano solo quelli in MotoGp. Così mio figlio Marco, i Gresini o i Nieto sparirebbero. Vogliono cancellare la storia».
«Che i piloti già a 18 anni siano influenzati dai loro manager e che abbiano dei fisici da MotoGp. Dormono e mangiano come un Marquez, vanno in palestra 5 giorni su 7 quando non è necessario. E poi arrivano troppo tardi nel Motomondiale: il limite di età è stato alzato per gli incidenti mortali nel Cev (campionato europeo di velocità, ndr), ma bastava fare griglie meno piene».
(Corriere della Sera)
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