Intervistata dal Corriere della Sera, Federica Pellegrini si racconta. Tanti gli argomenti affrontati dall'ex nuotatrice, partendo dal compagno Matteo Giunta: "Ho avuto un grande mentore nella mia vita, Alberto Castagnetti, che però mi ha lasciato troppo presto, per un attacco di cuore. Poi ho avuto cambi tecnici abbastanza ravvicinati, finché non ho trovato Matteo. Prima come preparatore atletico, poi come coach".

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Pellegrini: “Ho rischiato la depressione dopo un parto difficile. Con Matteo…”
Bella, vincente, però fragile.
—«Ho attraversato momenti molto difficili. Sono andata via di casa dopo l’Olimpiade di Atene, a sedici anni. Vivevo a Milano con altre tre ragazze, lontano dalla mia famiglia. Mi sentivo sola, e lo ero. Qualsiasi cosa facessi ero sulla bocca di tutti, vivevo in costume, avevo i miei sbalzi ormonali, che la testa ingigantiva, e che la gente percepiva. Così sono diventata bulimica. Per fortuna sono sempre stata una persona molto introspettiva; quando ho capito che quello che stavo facendo a me stessa non andava bene e mi danneggiava a livello sportivo, è cominciata la risalita».

Pechino: al mattino sbagliò la finale dei 400, al pomeriggio nella batteria dei 200 fece il record del mondo, il giorno dopo vinse l’oro.
—«Quella medaglia non l’avrei persa per niente al mondo. Una cattiveria agonistica così non l’ho mai avuta».
Poi la nuova crisi.
—«Nell’ottobre del 2008 provo gli 800 a un meeting italiano, in un contesto molto tranquillo. Mi viene un attacco d’asma, di cui non sapevo di soffrire. Temevo di rivivere nella mia testa quel momento, mentre nuotavo, per ogni gara che avrei fatto di lì in avanti. E così purtroppo è stato. Il lavoro psicologico è stato durissimo, più di quello fisico; perché il dolore del corpo che provi quando sei distrutta dagli allenamenti lo capisci, quello della mente no. Fino al sogno che mi ha salvata».
Quale sogno?
—«Sognai di buttarmi a fare questa maledetta gara dei 400 stile libero con l’accappatoio. Non mi fregava niente di arrivare ultima; però quei 400 li ho finiti».
È arrivata Matilde. Anche se non subito.
—«No, questa bimba ci ha messo un po’ ad arrivare. Quando ci provi e ci metti qualche mese in più di quello che ti sei messo in testa sembra che non arrivi mai. La genitorialità è un percorso molto potente. Dall’inizio fino ad adesso, che Matilde ha quasi due anni, mi hanno detto: sarà sempre più complicato. Però è stato bello, molto. Non sempre facile, anche tra di noi: la psicologia maschile e femminile seguono due vie parallele, non si incontrano mai. È tosta».

Com’è la gravidanza? Com’è, per un’atleta, il corpo che cambia?
—«Il corpo che cambia è difficile da accettare. All’inizio ti guardano come a dire “come è grassa!”, prima ancora di capire che è la pancia della gravidanza. Poi, quando la pancia è esplosa, per me è stato il momento più bello in assoluto».
Il parto è stato difficile.
—«Difficilissimo. Forse è quello che ha innescato i problemi venuti dopo. Sono state 48 ore di follia. Adesso ci rido su. Matteo è sempre stato con me, è stato incredibile il suo supporto. Ho avuto contrazioni molto forti. Dovevano essere quelle di preparazione, però erano già molto dolorose. Questa cosa mi sembrava stranissima, perché ho una tolleranza del dolore abbastanza alta. E invece sono partite già potentissime, però erano molto distanti, abbiamo dovuto aspettare tantissimo tempo. E poi… problemi su problemi».
Nel libro racconta di aver provato prima il parto in acqua, poi l’epidurale, infine il cesareo d’urgenza.
—«A un certo punto si è perso il battito della bambina. E il chirurgo ci ha detto: non ha senso aspettare, andiamo in sala operatoria. Sono stati due giorni veramente “interessanti”. Ti prepari a tutto, perché abbiamo fatto il corso preparto insieme; però che accada tutto, e tutto insieme, non lo pensi mai. Avevamo al fianco un super team, per fortuna. La nostra preoccupazione era solo ed esclusivamente legata alla bambina».
I primi due mesi dopo il parto sono stati difficili, nel libro Federica parla di “baby blues”.
—«Sono stata vicina alla depressione. Credo sia iniziato tutto da un parto così complicato: quando ho preso la bambina in braccio ero già stanchissima. È stato un accumulo di stanchezza. Quindi i primi due mesi sono stati molto difficili. La prima notte in ospedale, guardando mia mamma, mi sono messa a piangere. Non so perché stessi piangendo, e questa cosa si è protratta nel tempo: sempre la sera, sempre a un certo orario, con accensioni che non capivo neanche da dove venissero. A un certo punto scoppiavo in un pianto dirotto, e non sapevo perché. Poi abbiamo scoperto che era questo “baby blues”, che per fortuna non è mai sfociato in una depressione post partum, ma è appena un gradino sotto. Anche gestire questa cosa non è stato facile. Per fortuna non ho vissuto uno degli effetti della depressione: il rifiuto di mia figlia. Anzi, allattare mi faceva stare meglio; anche se aggiungeva altra fatica. E poi Matilde nei primi due mesi non ha mai avuto sonno».
(Corriere della Sera)
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