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gossip
In una lunga intervista al Corriere della Sera, Fredy Guarin ricorda il suo periodo all'Inter. Proprio in Italia esplose il problema della dipendenza dall'alcol per l'ex giocatore. "Ho bussato alle porte dell’inferno. Ho dovuto toccarle per rinascere. Dico sempre che strade come quella dell’alcolismo hanno quattro destinazioni: l’abbandono, l’ospedale, il carcere, la morte".
«Sono arrivato fino alla terza. Mi ero costruito una prigione interiore. Sono stato a un passo dall’ultima, la fine di tutto».
«Un sogno diventato realtà. L’Inter ancora oggi per me è famiglia».
«Il primo è stato un momento duro. Il club mi aveva avvisato dell’offerta della Juve. Io volevo rimanere, ma Mazzarri chiedeva Vucinic. E i tifosi pensavano che fossi io a spingere per l’addio. La rete contro il Milan è stata l’ultima con la maglia nerazzurra, speciale. Ho ancora i brividi».
«Durante i miei ultimi mesi all’Inter. Ho iniziato a bere. Ma l’alcol non era il vero problema».
«Stavo male per la mia situazione familiare. Mi stavo separando dalla mia ex moglie, vivevo in un’altra casa ed ero lontano dai miei bambini. Non lo accettavo. L’alcol era un tentativo di rispondere al mio malessere, un rifugio dove nascondermi».
«Gli altri sì, io no. Zanetti, Stankovic, Mancini, Icardi, Cordoba e altre persone dell’Inter cercavano di aiutarmi, ma il mio problema ormai era già troppo grande, difficile da controllare. Per questo motivo ho dovuto lasciare l’Italia».
«E la mia dipendenza è peggiorata. Ero in un nuovo Paese. Io, da solo con il mio problema. Bevevo, mi allenavo, giocavo. Il pallone in quegli anni era il mio psicologo. Era l’unica cosa che mi costringeva a rispettare orari, appuntamenti, responsabilità».
«Avevo perso la mia famiglia. I miei figli erano lontani ed ero il responsabile di quella situazione»
«Ho pensato di suicidarmi. E tre volte ho provato a togliermi la vita. Dio mi ha salvato».
«Un giorno ero a casa da solo e avevo bevuto. Chiamavo le persone, non rispondeva nessuno. Stavo pensando di farla finita. Ero stanco di tutto. Ho telefonato alla mia psicologa e al mio agente per chiedere aiuto».
«Mi hanno portato in una fondazione. Lì è iniziata la mia partita più importante. Ho fatto tutto quello che mi hanno chiesto. Ho smesso di bere. Per due mesi mi sono svegliato alle sei di mattina e per tutto il giorno seguivo sessioni di allenamenti o facevo incontri con psicologi e psichiatri. Poi mi è stato fatto un programma riabilitativo. Non ho più smesso di seguirlo. Mi ha salvato».
(Corriere della Sera)
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